L’obiettivo finale, la cura del Parkinson, è naturalmente ancora lontano. Ma la scoperta di un’équipe di scienziati della University of Lund, in Svezia, indica che siamo, per lo meno, sulla buona strada. I ricercatori, come raccontano su Stem Cells, sono infatti riusciti, tramite un trapianto di neuroni, a ripristinare le funzioni motorie nel cervello di ratti colpiti da un modello animale del morbo di Parkinson.
Una “grande svolta” nella lotta alla malattia, sebbene, per ora, la sperimentazione del metodo sugli esseri umani sembri ancora relativamente lontana: secondo gli autori dello studio, bisognerà aspettare almeno altri tre anni prima di iniziare i trial clinici sull’uomo.
Una delle cause principali del morbo di Parkinson è la morte dei neuroni che rilasciano la dopamina, un neurotrasmettitore che svolge un ruolo molto importante nel comportamento, nella cognizione e nel movimento volontario. La morte di questi neuroni produce una progressiva perdita di controllo sulla precisione e la velocità dei movimenti. I trattamenti farmacologici e chirurgici oggi disponibili tendono a perdere efficacia nel tempo. Un’alternativa è la terapia che fa ricorso al trapianto di cellule staminali umane, un approccio che garantisce risultati di lunga durata, ma che non risulta efficace su tutti i pazienti. Inoltre, l’utilizzo di tessuti cellulari provenienti da feti umani presenta problemi logistici difficili da risolvere, ed è reso complicato da una limitata disponibilità di cellule.
“Si tratta di un risultato che ha richiesto tanti anni di ricerca. Speriamo adesso di poterlo affinare ulteriormente, fino a riuscire a produrre le cellule nel rispetto dei parametri necessari per l’utilizzo clinico”, ha spiegato Malin Parmar, autrice dello studio.
Questa ricerca potrebbe avere anche importanti ricadute nella comprensione di un’altra patologia neurodegenerativa che colpisce la coordinazione muscolare e porta a disturbi cognitivi, la malattia di Huntington, che il gruppo della Cattaneo presso l’Università di Milano studia da tempo, come spiega la stessa Cattaneo:
“I consorzi europei accelerano i percorsi di studio in tante direzioni. Abbiamo potuto conoscere i risultati svedesi in anticipo, discuterli e integrarli nei nostri esperimenti. In questa prospettiva, la collaborazione europea emerge ancora una volta come qualcosa di enormemente prezioso”.
“Lavoriamo in network, come se fossimo parte di un superlaboratorio transnazionale capace di aumentare la competitività europea, e di vincere sfide di conoscenza e innovazione con gli altri continenti – spiega Elena Cattaneo -. L’Unione Europea ha cambiato il modo di fare ricerca nei nostri laboratori, abbattendo i confini tra le Nazioni, sollecitando sinergie e collaborazioni e promuovendo la mobilità dei giovani e lo scambio di materiali, cellule, idee, affinché siano verificabili da altri colleghi. Così, può capitare – aggiunge la studiosa milanese – che si preparino le cellule a Milano, poi si mettano in un incubatore portatile e si prenda, quindi, un aereo per trapiantarle in Inghilterra o in Svezia. In questo modo – sottolinea Cattaneo – si guadagna tempo e qualità. E, soprattutto, si creano nuove generazioni di scienziati, in cui ciascuno ha responsabilità verso il progetto comune”.